Money for Nothing non è, in questo caso, la famosa canzone dei Dire Straits. Ma l’ultimo libro firmato da Alessandro Messina e Dario Carrera e pubblicato da Altreconomia.

Il libro è di piccolo formato e non arriva a 100 pagine, ma è decisamente denso. Ogni capitolo approfondisce un tema caldo legato al presente e al futuro della finanza globale. Ogni tema è stato scelto per la sua reale capacità di avere un impatto sulla vita di ognuno di noi. Per questo, secondo gli autori, è una buona idea conoscere, approfondire e dibattere su questi temi, aumentando la consapevolezza complessiva in un paese sempre fanalino di coda tra i paesi sviluppati, quando si parla di educazione finanziaria.
Dallo stato di salute delle banche in Italia, argomento di grande attualità visti i fallimenti di Silicon Valley Bank e di First Republic Bank negli USA, all’accesso al credito. Dal crowdfunding all’euro digitale, passando per le criptovalute e il rapporto tra finanza e sostenibilità.
Per capire meglio di cosa parla Money for Nothing abbiamo fatto due chiacchiere con il co-autore Dario Carrera, esperto di finanza e di innovazione, professore presso l’Università Link di Roma.
Chi è Dario Carrera in poche parole?

“Da circa 20 anni sono alla ricerca di modelli di innovazione impossibili e dei loro abilitatori: spazi di collaborazione e trasmissione di conoscenza, informali ed informali, strumenti finanziari e modelli teorici che possano codificare e supportare idee di impresa e progetti con un impatto positivo per persone, ambiente e territori di riferimento. È la social innovation: innovare per la società. Ho contribuito alla fondazione degli Impact Hub di Milano e Roma, al primo articolato normativo sul crowdfunding in Italia, ad allenare i portieri della Liberi Nantes, squadra di calcio costituita da migranti forzati e patrocinata dall’Agenzia ONU per i rifugiati UNHCR”.
Come è nato il libro Money for Nothing?
“Money for Nothing nasce da una riflessione condivisa con Alessandro Messina e segue a 10 anni di distanza una prima stagione di eventi, prodotta sempre da Impact Hub Roma, dal titolo “Money for Good”. Dopo questo ampio intervallo, riteniamo che di “good” sia rimasto ben poco. È arrivato il momento di una analisi critica e talvolta severa di quanto “La finanza giri sempre più attorno a se stessa. E i soldi non arrivano all’economia reale”. Su questo, consiglio il recente Ted Talk di Alessandro”.
Il sottotitolo del vostro libro è “Guida civica alla finanza per comprendere, discutere, scegliere”, cosa significa esattamente?
“La consapevolezza finanziaria dovrebbe essere parte del nostro essere cittadini, imprenditori, educatori, attivisti, innovatori. Assistiamo, invece, a un inerte processo di delega nei confronti di attori, istituzionali e non, senza ben comprendere gli effetti delle nostre scelte. Allo stesso tempo, le giovani generazioni stanno esprimendo una febbrile curiosità nello sperimentare e nell’inventare essi stessi strumenti ed “economie-piattaforma” imprevedibili che, se non sono orientate a una visione di lungo termine, contribuiranno a un mero esercizio di estrazione del valore, in cui la mera speculazione non lascerà spazio a principi quali inclusione, generatività e consapevolezza.
Da qui “comprendere” e “scegliere” e infine “discutere”: abbiamo bisogno di luoghi di confronto, di dibattito, anche di conflitto. Conflitto inteso come momento di esplicitazione di pensieri anche radicali, ma generatori di soluzioni e di nuovi immaginari”.
Leggi anche – Ddl Capitali: l’on. Centemero spiega cosa cambia e le priorità del governo sul fintech
L’Italia è indietro rispetto alla media OCSE per quanto riguarda l’educazione finanziaria. Cosa si può fare per migliorare le conoscenze e i comportamenti consapevoli in questo campo?
“Riprenderei quanto espresso in merito al “discutere”, senza attendere le spinte “gentili” (per dirla alla Thaler e Sunstein) o autoritarie (come vorrebbe Peter Thiel, co-fondatore tra l’altro di PayPal e Palantir Technologies) delle istituzioni. Le valutazioni PISA (Programme for International Student Assessment) sull’alfabetizzazione finanziaria (e non solo a dire il vero), accendono spesso i riflettori sulla carenza del nostro Paese in questo campo, che è ormai cronica. Viviamo una fase in cui le istituzioni stesse appaiono maggiormente permeabili e disponibili all’ascolto, ma allo stesso tempo, si fatica a identificare attori credibili della società civile, capaci di legittimarsi in questo nuovo dialogo.
Rimanendo sul mondo della finanza, proprio l’Italia ha espresso le MAG, le banche popolari e cooperative. Queste banche hanno tracciato un percorso, hanno unito cittadini e professionisti, idealisti, conservatori e innovatori, terzo settore e impresa. Sono, e in parte erano, veicoli di pensiero prima che di servizio. Partirei dai loro modelli, per trasmetterli alle giovani generazioni per ripensarli, riproporli e, anche provocativamente, testarli in contesti lontani dalle proprie origini”.
Il Governo italiano ha recentemente approvato un decreto legislativo che introduce l’insegnamento dell’educazione finanziaria nelle scuole, all’interno dell’educazione civica. Il Ministero dell’Istruzione lavorerà fianco a fianco con Consob e Banca d’Italia per definire i contenuti del programma. Cosa ne pensi?
“Come sempre saranno le persone a fare la differenza. Ai formatori, alla scuola, si delega spesso un ruolo improprio, caricando di responsabilità gli insegnanti che si trovano a supplire a carenze strutturali della nostra società con progetti spot e progettati da altri. Evidentemente guardo con favore all’intenzione del Governo.
Quando si legge che “[…] il Ministero dell’Istruzione e del Merito definirà le linee guida per lo studio dell’Educazione finanziaria nelle scuole, d’intesa con la Banca d’Italia e la Consob e sentite le associazioni rappresentative degli operatori e degli utenti bancari e finanziari […]” sarà interessante verificare se nella cabina di regia troveranno posto anche gli attori della cooperazione, del terzo settore, dell’innovazione tutta, che di nuovi professionisti consapevoli hanno tremendamente bisogno”.
Cosa ne pensi del filone delle fintech for good? Vedi qualche esempio particolarmente virtuoso/interessante?
“Leggevo qualche tempo fa un articolo dell’Harvard Business Review sulla carenza di trasparenza da parte di colossi quali Visa, FIS, Shopify, Paypal e Mastercard nel rendicontare i propri impatti sociali (o meglio, delle relative iniziative promosse). In primis in termini di inclusione finanziaria per i cosiddetti unbankable. Il rischio è che ci si accontenti di iniziative di responsabilità sociale d’impresa a corto raggio, legate più alla comunicazione che a un vero cambiamento organizzativo e di strategia di lungo termine. C’è, d’altra parte, molto fermento nelle iniziative che seguono il modello startup, ma che, prima o poi, dovranno fare i conti con i grandi player e scegliere tra due strade. Se essere acquisite, diluendo le proprie quote, ma anche anche il loro valore identitario e i principi originari. Oppure se proseguire imperterriti lungo la strada della coerenza.
Un caso che consiglio di prendere in esame – così da non scontentare nessuno – è quello di Paxful, l’exchange che orienta la sua missione verso l’adozione non speculativa di Bitcoin, a favore di economie emergenti e per servizi legato allo sviluppo di comunità locali (in Africa, e in particolare in Egitto e Nigeria). Negli ultimi tempi, si sono create delle fratture nel gruppo fondatore, proprio in relazione alla deriva rispetto alla visione originaria. La crescita dell’exchange ha portato a scelte, personali e aziendali, quantomeno controverse, e una pressione crescente da parte delle autorità americane, fino a portarne alla chiusura, liquidando tutti i creditori (qui per approfondire con un interessante podcast di Bitcoin Italia Podcast). La decisione di Ray Youssef di non vendere Paxful ma di chiuderla, bruciando capitali propri per poi – molto probabilmente – rilanciarla in un’altra forma, pur di mantenere dritta la barra della visione iniziale, mi ha sorpreso.
A prescindere da come finirà, è un caso studio importante sul tema della proposizione di valore di una azienda e le sue evoluzioni in un momento di crescita. Un modo per comprendere i network distribuiti di pagamento non a fini speculativi (o almeno non solo) ma come piattaforme di inclusione”.
Cosa ne pensi del crowdfunding come strumento di democratizzazione finanziaria nel campo degli investimenti (equity e lending) e di volano per la creatività e l’imprenditorialità (reward-based)?
“L’aspetto affascinante e comune a tutte le formule citate è quello del crowdfunding come costruttore di comunità per definizione. Che siano comunità temporanee, create per mero interesse economico o di lunga durata per via di un forte credo valoriale, questi insiemi di attori sociali vengono attivati e spinti all’azione grazie a quei laboratori di sperimentazione, inclusione e premialità che sono le piattaforme di crowdfunding. Altro elemento che spesso non viene considerato, è l’impatto che queste hanno avuto, e continueranno ad avere, in termini di generazione di professionalità nuove e complementari. Aderire ad una campagna, piuttosto che progettarla, gestirla, produce effetti moltiplicatori in termini di internazionalizzazione delle proposte, collaborazioni inaspettate, testing di nuovi modelli e prototipi, che altrimenti non avrebbero mai visto la luce”.
Leggi anche – Venture capital: “Più donne significa maggiori rendimenti”
Insegni startup all’Università Link di Roma. Le startup sono un ambito spesso legato alla tecnologia e il settore tech ha notevoli problemi di gender gap. Dal tuo osservatorio universitario, hai visto negli ultimi anni un incremento di ragazze che approcciano al mondo startup con l’idea di fare carriera in questo ambito?
“Proprio di recente eravamo a lezione in aula con la collega Danila Scarozza e abbiamo ospitato la testimonianza di Ksenia Kurileva di Metta, un’agenzia di open innovation, partita dal settore dell’aerospazio, con base in UK. In quella sede abbiamo condiviso con gli studenti alcune statistiche legate alla provenienza geografica e accademica dei fondatori di quelle startup definibili come “unicorni” negli Stati Uniti.
I numeri sul divario di genere sono imbarazzanti e le fonti sono tante e disponibili per molti livelli di indagine. Allo stesso tempo, se prendiamo in esame le classi di studenti che ho incrociato in questi anni, la distribuzione per genere corrisponde a circa il 50%. Evidentemente, anche in termini quantitativi, non è questo un indicatore da prendere in considerazione, ma seguendo anche i progetti di ricerca e le proposte di tesi degli studenti. Forse, il compito degli educatori è quello di stimolarli con simulazioni e continui ancoraggi a un quotidiano che, se da una parte è in continuo cambiamento, dall’altra offre opportunità per ripensare modelli comportamentali prima, professionali poi, affinché di divario di genere in futuro non si debba più parlare. Procediamo allora imperterriti a creare spazi di dibattito e confronto, in presenza (magari!) e non, per continuare a comprendere, discutere, scegliere la nostra idea di finanza”.
a cura di Luca Francescangeli